Quando la Redazione mi ha prospettato l’idea di scrivere un pezzo sul Palazzo feudale dei Capece ho accettato con entusiasmo, senza riserve. Da subito ho pensato ai sentieri da battere nell’affrontare con rispetto la vita evolutiva di un “Bene” al centro del paese, sotto gli occhi di tutti, ma da tanti poco conosciuto. Nel fare questo ho pensato ai viaggiatori del Grand Tour come Goethe, il raffinato Keats, Dickens, Montesquieu, tutti insieme immersi nella loro ricerca del bello e delle origini.
Ecco, ho chiuso gli occhi e calandomi nei loro panni li ho riaperti davanti al “castello” di Corsano. Castello sì, perché quello che alla nostra vista appare come un “palazzo”, in origine era un fortilizio, forse non inteso come quelli che ci hanno fatto sempre studiare sui libri di scuola con le torri agli angoli, il mastio centrale, mura alte e un profondo fossato attraversabile solo da un pesante ponte levatoio. Qui da noi, nel profondo sud, i castelli erano altra cosa. Almeno quelli medievali. Almeno quelli dei nostri paesi di periferia.
Non sappiamo se il feudale Fabiano Securo se ne costruì uno di sana pianta oppure se lo ebbe in dono da re Tancredi di Lecce dopo l’investitura di fine XII secolo. Questa informazione gli eruditi salentini del Seicento, purtroppo, non ce l’hanno saputa dare, di contro, una appetitosa indicazione la fornisce invece uno dei numerosissimi frammenti medievali superstiti del Grande Archivio del Regno di Napoli dove, all’interno di un lungo atto di restitutionis, è annotata la presenza del castrum Cursani riconsegnato sotto il governo di Carlo I d’Angiò nelle mani del legittimo proprietario dominus Mattheo de Tocco dopo che Manfredi, figlio di Federico II di Svevia, glielo aveva tolto pochi anni prima, in regime di guerra, per donarlo al suo fiduciario Nicolaus de Sirino.
I “corsanesi medievali”, probabilmente, avrebbero colto al volo la sottigliezza proposta delle cancellerie regie classificando con esattezza il “castrum” del proprio paese, riconoscendolo in un fortilizio, un piccolo castello, o una qualsiasi opera difensiva a protezione del feudatario, più che del centro abitato.
Per continuare la ricerca della verità riguardo la storia del palazzo ho dovuto compiere deviazioni di viaggio tra le poche carte d’archivio, dalle quali trarre il meglio delle informazioni da incrociare con quello che la residenza, al momento, è in grado di raccontare. La qualifica di castrum affiancata al nome del paese ha un significato storico ben preciso oltre che funzionale, soprattutto alla luce della catalogazione del paese come casale, così come registrato più volte nel medioevo dal 1272, con il quale era indicato un centro abitato “aperto”, cioè privo di mura difensive ma non di difese. Il castro tardo medievale assume significati differenti rispetto all’originale dato dai romani, e nel caso corsanese il termine è associato a una semplice “casa forte” munita di una struttura turrita a pianta pressoché quadrangolare del tipo molto frequente in Italia, con molta probabilità circondato da un primo sbarramento costituito dalle mura di un cortile. Esempi notevoli nelle immediate vicinanze sono quelli delle torri dei palazzi baronali di Lucugnano, Nociglia e Vaste e quello leggermente più tardo della Turris Magna di Tricase. A tal proposito è probabile che i corsanesi del Trecento vedessero una torre paragonabile a quella vastese, tozza, quadrata, merlata e a due piani. Al suo interno nel 1318 si rinchiuse il Signore del paese insieme alla moglie e ad alcuni cortigiani. Come in un film il torrione al centro della scena era circondato dalla popolazione, costituita in quegli anni quasi esclusivamente da lavoratori della terra, che con forconi, zappe e bastoni alla mano inveivano contro il feudatario per protestare e mettere fine agli innumerevoli soprusi e abusi perpetrati nei loro confronti. È risaputo che in quel frangente il barone nel tentativo di placare gli animi agitati dei rivoltosi decise di inviare tra loro un’ancella della moglie, immaginando che una figura femminile potesse calmarli ma, in buona sostanza, mise la ragazza di fronte a una morte cruenta.
Ritornato nel punto esatto da dove è iniziato il mio viaggio, ho interrogato la facciata del palazzo, in cerca degli spunti di ricerca ed ho individuato almeno sei interventi architettonici marcati da differenti quote del prospetto, da tufi diversi per estrazione e forma, da giunti di divisione dei paramenti murari, e da due portali d’ingresso. A tutto ciò si aggiungono gli interventi che si leggono sulle altre tre facciate del palazzo e al suo interno.
Non mi sono lasciato ingannare dal grande ingresso perennemente chiuso, posto al centro del prospetto. Mi ha invece intrigato, e non poco, l’anonima porta d’accesso agli ambienti in uso agli Scout, porta che tanto normale non è, difatti a un occhio più attento non sfuggirà la sagoma tamponata di un piccolo portale con arco ribassato decisamente più antico del primo. Se non fosse che questa tipologia di arcata era particolarmente in uso nel periodo tardo medievale non mi sarei addentrato all’interno per capirne qualcosa in più. E ho fatto bene, perché la piccola porta nasconde una spessa muratura con l’intradosso o imbotto del portale che presenta un’interessante strombatura verso l’interno. La copertura di questa stanza, come del resto quelle delle camere a seguire, è del tipo a botte, e anche questa è una conferma dell’antichità del luogo. Non è un caso se con l’allargamento del palazzo a est alcune camere sono state coperte con una volta a crociera, sempre datata ma comunque più recente.
A questo punto l’obiettivo era individuare la “matrice” del palazzo. La sensazione di essere entrato nel luogo giusto l’ho avuta quando per accedere nella camera successiva ho dovuto attraversare una porta chiaramente aperta “a forza” nell’imponente muraglia. L’assenza di un architrave e lo spessore considerevole della muratura, molto simile per dimensioni a quella anteriore, sono indicatori intriganti che hanno trovato conferma nella piccola scalinata che conduceva al piano superiore, incastonata nella muraglia. Una scala che punta dritto nel bel mezzo della grande sala superiore, cosa che non ha alcun motivo di esistere. La sua funzione era, piuttosto, quella di condurre al piano alto di una costruzione da considerare tra le più antiche dell’intero palazzo, con le caratteristiche di una struttura tardo medievale, presumibilmente edificata nello stesso luogo del fortilizio svevo.
La presenza di una piccola fortificazione rendeva appetibile il paese, con l’inevitabile susseguirsi continuo di diversi feudatari che a vario titolo hanno messo mano alla residenza feudale. Il cortile interno, ridotto a un grande androne con volta piana realizzata durante gli anni della lavorazione del tabacco, era nell’era rinascimentale una corte esterna dalla quale accedere alla profonda galleria delle scuderie. È in questo secolo, il Cinquecento, che il palazzo ha visto una prima espansione in direzione Sud e Est. In questa fase c’è stato anche l’innalzamento del fabbricato sul piano primo come confermano alcune tipologie di volte più antiche, del tipo a padiglione. Non escludo che tutta l’area della grande sala fosse occupata da diverse stanze che completavano il piano nobile voluto dai Securo, ritornati a governare il feudo dopo oltre due secoli.
La svolta costruttiva che ha portato il palazzo ad assumere le sembianze attuali si è avuta solo nel Seicento, nel secolo d’oro per l’intera Terra d’Otranto e, da quello che ho potuto costatare addentrandomi al suo interno, anche per la residenza baronale di Corsano.
Il 1636 è la data spartiacque, l’anno in cui il feudo è stato acquistato dalla ricca e pluridecorata famiglia feudataria Capece, nella persona di Giovanni Tommaso.
I Capece arrivano a Corsano in una stagione nella quale il desiderio di autorappresentazione per la nobiltà era un valore irrinunciabile che spiega la realizzazione di cospicue imprese edilizie. Caratteristica del fenomeno era la tendenza a riqualificare gli interni, le facciate e i giardini, ma anche a costruire nuovi fabbricati attorno a quelli più antichi. Potrei stendere in questa sede un elenco lunghissimo di palazzi nobiliari disseminati in tutta la provincia d’Otranto, su tutti cito il castello di Corigliano d’Otranto, il palazzo ducale di San Cesario, il castello Imperiali di Francavilla Fontana e il più vicino palazzo principesco di Tricase.
Dopo aver visionato buona parte del palazzo, mentre ero alle prese con le successioni feudali, una forbice di date ha catturato immediatamente la mia attenzione: il periodo dal 1657 al 1668, decennio di governo del barone Carlo. Negli stessi anni a Tricase Stefano II Gallone faceva costruire il proprio palazzo allargando quello rinascimentale. Diversi particolari accomunano non a caso le due grandi residenze. Salito al piano nobile dallo scalone d’onore, che fino all’Ottocento era a destra del grande cortile interno, si entra immediatamente nell’aula più grande del palazzo: la sala del trono che aveva occupato il posto delle stanze cinquecentesche. Ho avuto la sensazione in entrare nell’omonima sala di Tricase con alte pareti, purtroppo anche qui senza intonaco, coperta a capriate e con finestroni grandi che fanno entrare tanta luce anche in una giornata uggiosa. E poi le finestrelle del matroneo, oggi tamponate, da dove si affacciavano i soldati, ma anche chi non aveva il permesso di fermarsi in sala durante i ricevimenti di corte, sono molto simili a quelle del palazzo tricasino. E che dire delle sale di rappresentanza a sinistra dello scalone d’onore con le volte a padiglione decorate a stucco con figure mitologiche, stemmi di famiglia, e persino l’allegoria della giustizia. Le porte che conducono da una stanza all’altra, da un “quarto” all’altro, sono decorate con stucchi ricoperti da calce da dove s’intravede un delicato finto marmo di colore verde che ricorda quello di palazzo Gallone.
Molte similitudini, molti punti di contatto, molti indizi che messi insieme fanno una prova. Carlo Capece frequentava Tricase e gli altri paesi del suo circondario e trafficava con Casa Gallone. Mi è capitato più volte di incrociarlo, insieme ai suoi familiari, nei registri parrocchiali cittadini nel ruolo di padrino di battesimo o cresima. Non è casuale quindi che gli interni dei due palazzi abbiano delle affinità. È probabile che lo stesso progettista abbia lavorato a Tricase e poi a Corsano, ma in questa sede, dopo quello che ho visto, non mi sento di escludere il contrario.
Il mio personale viaggio alla scoperta del palazzo feudale vuole rendere giustizia alla grandiosità dell’edificio insieme al suo potenziale, nonostante l’elevato tasso di degrado in cui versa. Una residenza, quella dei Capece, che merita di essere scoperta, acquisita al patrimonio della collettività, salvata dall’oblio in cui sta continuando a versare da troppi anni. Un viaggio che continua, con l’auspicio che quella del “castello” di Corsano possa essere, finalmente, una “Storia a lieto fine”.
Salvatore Musio